LA CORTE D'ASSISE Decidendo sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p., come sostituito dall'art. 1 della legge 267/97, sollevata dal P.M. all'udienza del 23 ottobre 1998 nel processo a carico di Di Sarno Giancarlo, Pezone Domenico e Cantone Raffaele, imputati dei reati di cui agli artt. 416-bis, 575 e 577 c.p., 10, 12 e 14 L. 497/74; Sentite le parti; O s s e r v a La questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 513 comma 1 c.p.p. sollevata dal P.M. risulta rilevante ai fini della definizione del presente giudizio e non appare manifestamente infondata. Per quanto riguarda la rilevanza, va evidenziato che nel presente processo il rinvio a giudizio degli attuali imputati in ordine ai delitti di omicidio continuato aggravato e di associazione per delinquere di stampo camorristico e' stato disposto, tra l'altro, sulla base delle dichiarazioni rese, nella fase delle indagini preliminari, dal coindagato Abategiovanni Angelo Raffaele. All'udienza del 12 marzo 1998, l'Abategiovanni si e' rifiutato di sottoporsi all'esame, ammesso a richiesta del P. M., sicche' le dichiarazioni rese dal medesimo nella fase delle indagini preliminari, per effetto della nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p., non possono essere utilizzate nei confronti degli altri coimputati, non avendo costoro prestato consenso. Tanto premesso, appare evidente la rilevanza della questione sollevata dal P.M. ai fini del decidere, atteso che l'accoglimento della medesima, con la conseguente declaratoria di illegittimita' della norma, nella parte in cui subordina al consenso degli imputati l'utilizzabilita', ai fini della decisione, delle dichiarazioni predibattimentali degli imputati che abbiano deciso di avvalersi della facolta' di non rispondere, renderebbe di fatto nuovamente applicabile il primo comma dell'art. 513 previgente e, di conseguenza, conoscibili e valutabili le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari da parte di uno degli attuali imputati, aventi contenuto accusatorio nei confronti di altri. Ai fini della valutazione della non manifesta infondatezza della dedotta questione di legittimita' costituzionale, si rende necessario premettere che l'art. 513 c.p.p., nella nuova formulazione, stabilisce che il giudice, se l'imputato e' contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso. Il legislatore, con la legge 7 agosto 1997 n. 267, ha ancorato dunque la utilizzabilita', nei confronti dei coimputati, delle dichiarazioni rese nella fase predibattimentale dall'imputato che non si presenta in dibattimento o si rifiuta di sottoporsi all'esame al consenso dei coimputati medesimi. Occorre stabilire se la nuova formulazione dell'art 513, che tende ad una finalita' indubbiamente condivisibile, mirando a garantire che la prova si formi nell'ambito di un effettivo contraddittorio, risulti in contrasto con norme costituzionali o principi di rilevanza costituzionale enucleati dalla giurisprudenza della Consulta, nella parte in cui rimette di fatto alla scelta discrezionale ed insindacabile del dichiarante l'esperibilita' materiale del contraddittorio ed alla scelta del coimputato che dovrebbe subirne gli effetti, la conoscibilita' da parte del giudice delle dichiarazioni rese prima del dibattimento. Appare opportuno premettere, sul piano metodologico, che la considerazione dell'ordinamento processuale penale va condotta sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non puo' che derivare da un'attenta lettura dei principi e criteri direttivi enunciati nella legge delega e dei principi costituzionali di cui questa richiede l'attuazione. Il sistema processuale penale delineato dalla legge delega e poi concretamente attuato nel codice tende, infatti, ad attuare i "caratteri del sistema accusatorio" (art. 2, comma 1) ma "secondo i principi ed i criteri" specificati nelle direttive che seguono, e poiche' la stessa norma detta anche l'obbligo di "attuare i principi della Costituzione" un'adeguata considerazione dell'ordinamento vigente non puo' prescindere dagli interventi correttivi operati dalla Corte costituzionale. Orbene, l'intervento novellistico, con cui sono state introdotte importanti modifiche attinenti al meccanismo di acquisizione delle prove e non solo al regime valutativo delle prove stesse, non sembra avere tenuto sufficiente conto di alcuni spunti argomentativi contenuti in varie sentenze della Corte costituzionale in quanto ha inteso privilegiare il principio del contraddittorio senza preoccuparsi della primaria esigenza di garantire l'effettivo accertamento dei fatti. L'analisi inerente alla riforma dell'art. 513 non puo' prescindere, in particolare, dalla soluzione adottata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 254 del 1992 in ordine alla controversa questione concernente la possibilita' di dare lettura delle dichiarazioni rese precedentemente dai soggetti imputati di reati connessi qualora costoro si fossero avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere. Con la citata sentenza, la Corte, nel dichiarare la illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura delle dichiarazioni di cui al comma 1 del medesimo articolo rese dalle persone indicate nell'art. 210, qualora queste si fossero avvalse della facolta' di non rispondere, osservava che il legislatore delegato, nel dettare l'art. 513 comma 1 c.p.p., che consentiva la lettura delle dichiarazioni precedentemente rese dall'imputato qualora questi sia contumace, assente ovvero "si rifiuti di sottoporsi all'esame", ha inteso comprendere nei casi di sopravvenuta impossibilita' di ripetizione dell'atto (di cui alla direttiva n. 76 della legge-delega) anche l'indisponibilita' dello stesso imputato all'esame (relazione al progetto preliminare) e cio' in linea con il criterio, rinvenibile in varie disposizioni del codice, tendente a contemperare il rispetto del principio guida dell'oralita' con l'esigenza di evitare - nei limiti e alle condizioni di volta in volta indicate - la "perdita" ai fini della decisione di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede. La Corte costituzionale, in altre decisioni, ha sottolineato che "l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova in dibattimento, cio' perche' fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita', di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento" (sentenza n. 255/92). Dai principi affermati dalla Corte costituzionale si desume chiaramente che il nuovo codice, se ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale ed il metodo orale quali criteri maggiormente rispondenti all'esigenza di ricerca della verita', ha pero' nel contempo provveduto a temperarne opportunamente la portata in riferimento ai mezzi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con metodo orale, adottando per essi un principio di non dispersione degli elementi di prova. Il legislatore, con la novella 7/8/1997, non ha tenuto conto dei principi ripetutamente enunciati dalla Corte costituzionale ed ha di fatto riproposto la vecchia formulazione dell'art. 513, in parte gia' dichiarata illegittima, ancorando la utilizzabilita', nei confronti di altri, delle dichiarazioni rese dall'imputato che non si presenta in dibattimento ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, al consenso di detti altri e delle dichiarazioni rese dalle persone esaminate ai sensi dell'art. 210 c.p.p. che si avvalgano della facolta' di non rispondere all'accordo delle parti (sul punto, data la irrilevanza in concreto,, non si ritiene di sollevare specifica questione, peraltro gia' sottoposta all'esame della Corte). Proprio sotto questo profilo, e cioe' proprio in raffronto al sistema nel cui ambito e' destinata ad inserirsi, la nuova disciplina introdotta dalla norma in esame appare priva di giustificazione, ponendo in essere una irragionevole preclusione alla ricerca della verita', presentando aspetti di incompatibilita' con le norme ed i principi costituzionali riguardanti i caratteri dell'azione e della giurisdizione penale, la funzione del processo penale, la valenza assegnata al principio della ricerca della verita' c.d. reale o materiale. Al riguardo va evidenziato che il capo dedicato all'"esame delle parti" e' inserito nei titolo relativo ai "mezzi di prova" onde e' fuori dubbio l'intenzione del legislatore di attribuire alle dichiarazioni rese da dette persone il rango di prove, sia pure soggette ai particolari criteri di valutazione dettati dall'art. 192 commi 3 e 4 c.p.p., che, nel circondare di cautele tali mezzi di prova, evidenzia ancora di piu' l'irragionevolezza della nuova disciplina nella parte in cui subordina l'utilizzabilita' delle dichiarazioni rese dall'imputato al consenso degli altri. In particolare, la norma in esame si pone in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall'art 3 della Costituzione, sulla base delle premesse giuridiche desumibili dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in relazione al concetto di atto irripetibile. A tale riguardo la Consulta, nel dichiarare non fondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 500 comma 2-bis e 512 c.p.p., nella parte in cui non consentono di dare lettura delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari dai prossimi congiunti dell'imputato, avvertiti della facolta' di non rispondere, e che si siano poi avvalsi in dibattimento della facolta' di astensione, ha osservato come l'esercizio del diritto di astenersi dal deporre riconosciuto dal legislatore ai prossimi congiunti dell'imputato determina una oggettiva e non prevedibile impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo, che consente di dare lettura degli atti assunti anteriormente al dibattimento. Orbene, se l'esercizio del diritto di astensione determina comunque una oggettiva e non prevedibile impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo, appare evidente la irragionevole disparita' di trattamento tra l'imputato raggiunto da fonti di prova costituite da dichiarazioni di prossimi congiunti rese nella fase delle indagini preliminari in assenza di contraddittorio e divenute irripetibili nella fase dibattimentale a seguito dell'esercizio di detto diritto, e l'imputato raggiunto da fonti di prova costituite dalle dichiarazioni del coimputato, divenute irripetibili per l'esercizio del diritto al silenzio riconosciuto al medesimo. Se, quindi, l'esercizio della facolta' di astensione da parte dei prossimi congiunti dell'imputato non preclude la lettura in dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese e legittimamente assunte dopo che gli stessi avevano rinunciato a tale diritto, in base alle medesime ragioni risulta del tutto irragionevole, e tale da concretare una ingiustificata disparita' di trattamento, escludere dalle ipotesi di sopravvenuta impossibilita' di ripetizione dell'atto le dichiarazioni rese dall'imputato che rifiuti in dibattimento di sottoporsi all'esame, in linea con il criterio tendente a contemperare il rispetto del principio dell'oralita' con l'esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede. La norma in esame appare, inoltre, in contrasto con l'art. 101 comma 2 della Costituzione, alla luce dei principi costantemente affermati dalla Consulta in ordine al rapporto esistente tra l'integrale disponibilita' delle prove in capo alle parti ed il principio della soggezione del giudice solo alla legge. La Corte costituzionale ha osservato in proposito che concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale sarebbe contrario ai principi cosituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione penale poiche' cio' significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire e, dall'altro, contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilita' penale sia riconosciuta solo per i fatti realmente commessi; ha, inoltre, precisato che un principio dispositivo non puo' dirsi esistente neanche sul piano probatorio, perche' cio' significherebbe rendere disponibile la res iudicanda. A tale riguardo e' stato evidenziato che il metodo dialogico di formazione della prova e' stato prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale, risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale; altrimenti ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale (sentenza n. 111/93). In altri termini, l'esigenza di accentuare la terzieta' del giudice - programmaticamente ignaro dei precedenti sviluppi della vicenda procedimentale - ha condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione delle fasi processuali allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse, ma tale opzione metodologica non ha fatto, ne' poteva far trascurare che il fine primario del processo penale e' la ricerca della verita' e che ad un ordinamento improntato al principio di legalita' (art. 25 della Costituzione), che rende doverosa la punizione di condotte penalmente sanzionate, nonche' al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112 della Costituzione) non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione (sentenze Corte costituzionale n. 291/1994 e n. 88/91). Se e' vero che la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale e' indisponibile e che un principio dispositivo non esiste neanche sul piano probatorio, il potere decisorio del giudice non puo' essere condizionato da scelte processuali delle parti e, a maggior ragione, dal verificarsi di una condizione potestativa rappresentata dall'esercizio del diritto di non rispondere, apparendo evidente che la funzione giurisdizionale non puo' essere efficacemente esercitata se al giudice viene resa impossibile, a seguito di scelte discrezionali ed anche immotivate di alcune delle parti, una compiuta conoscenza dei fatti sui quali e' chiamato a pronunciarsi. L'applicazione della norma impugnata, inoltre, puo' in concreto condurre ad una irrazionale disparita' in tema di delitti a concorso necessario, quale quello di associazione per delinquere contestato agli imputati, laddove e' impossibile registrare nello stesso processo una diversa decisione per l'imputato dichiarante, che ha formulato accuse anche a carico dei coimputati, e per costoro, solo in virtu' della scelta del primo di avvalersi della facolta' di non rispondere in sede dibattimentale e del mancato consenso degli altri.